Concetta D’Angeli, sei al tuo terzo romanzo: da dove arrivano “Le rovinose”, qual è stato il percorso che ti ha portato a scrivere di Silvana e Clara?
M’interessa la vita delle donne e sono anche convinta di saperne un po’; per me è l’equivalente del salotto di Jane Austen, l’unico territorio del quale lei riteneva d’essere competente. Anch’io scrivo dell’unico argomento che in qualche modo conosco, nella convinzione che sia un argomento importante, molto importante: credo infatti che ogni forma di razzismo (contro gli ebrei, contro i neri, contro gli omosessuali, e così via) trovi la sua origine nella condizione di emarginazione, sfruttamento e sudditanza in cui le donne, solo per il fatto di essere donne, sono state tenute da sempre in ogni parte del mondo. Per usare uno slogan: l’oppressione delle donne è il razzismo originario.
Perciò in tutt’e tre i miei romanzi parlo soprattutto di donne, cerco di dare loro voce e rappresentazione; in questo senso “Le rovinose” appartengono a un percorso coerente.
Ritieni che i cosiddetti “anni di piombo” siano parte del bagaglio culturale italiano e, come tali, dovrebbero essere oggetto di studio e analisi costante e ulteriore o sono pagine già abbondantemente sviscerate da lasciare sbiadire col tempo?
No, non credo che se ne sia parlato a sufficienza, nemmeno nei libri di storia, né che si sia fatta chiarezza su molti episodi clamorosi e tragici.
Inoltre.
Sono stata giovane più o meno negli stessi anni delle mie due protagoniste, Silvana e Clara, ma quando ho cominciato a scrivere di loro ho dovuto riconoscere che ricordavo poco delle vicende pubbliche di quel periodo (fra il 1976 e il 1988), quindi ho fatto delle ricerche e sono rimasta sbalordita: era come se non avessi registrato emotivamente l’altissimo tasso di violenza in cui stavamo immersi. Ci eravamo assuefatti? E poi, io che facevo mentre nelle strade italiane si sparava, scoppiavano le bombe, morivano centinaia di persone?
Non sto dicendo che Le rovinose siano un romanzo autobiografico, le vite di Silvana e Clara sono molto diverse dalla mia però propongono un tema che mi appartiene: ho voluto ricostruire come l’inconsapevolezza, l’inesperienza, l’egotismo della gioventù si trovino costretti, in talune circostanze, a interagire con fatti storici e contesti generali complessi, ambigui, indecifrabili, costretti a trovare risposte, costretti a capire, per quanto allora fosse possibile (o sia possibile ad ogni gioventù), costretti, per lo più, a fallire.
Eppure, contraddittoriamente, proprio in quel periodo avvennero in Italia trasformazioni rivoluzionarie per la vita delle donne. Nei Settanta fu riformato il diritto di famiglia riconoscendo tra l’altro la parità di genere nel matrimonio e cancellando il delitto d’onore, furono introdotti il divorzio e l’aborto, fu abrogato l’articolo del codice penale che vietava la propaganda e l’uso dei contraccettivi: un cambiamento, quest’ultimo, che oggi si ricorda a malapena ma che fu fondamentale – e lo è tuttora – per permettere alle donne una vita sessuale libera. Anni memorabili anche per la questione omosessuale: venne fondato il “Fuori!”, venne tenuto a Milano il primo congresso internazionale omosessuale, fu pubblicato “Elementi di critica omosessuale” di Mario Mieli (1977), saggio teorico importante e precorritore, tanto da anticipare addirittura molti aspetti del pensiero LGBTQ.
Il tema della violenza domestica è piuttosto centrale nel romanzo, ti sei documentata raccogliendo testimonianze dirette, o un caso specifico, o hai lavorato partendo da casi generici?
Non ho avuto bisogno di molta documentazione; basta aprire gli occhi, fare un po’ d’attenzione e tutti possiamo renderci conto delle dimensioni di questo orribile fenomeno, la cui acme è costituita dai femminicidi (in Italia, negli ultimi anni, ogni tre giorni si conta una donna uccisa da un familiare). Durante l’infanzia, nel mio paese, sentivo di continuo raccontare di mogli e figlie picchiate, una parente venne a un pranzo di Natale con un braccio rotto, gliel’aveva spezzato il marito. Anni dopo una mia amica sposò un tale che la sottopose a ogni genere di torture psicologiche e la obbligò a vivere in un incubo dal quale lei non riuscì più a riemergere. Quando ho insegnato all’università ho spesso sospettato che molte mie studenti subissero coercizioni o maltrattamenti in famiglia, qualcuna me l’ha confermato, qualcuna me l’ha fatto capire, la maggioranza taceva. È così difficile rompere quel silenzio – che spesso nasconde la propria umiliazione, perché le vittime si sentono colpevoli. Quindi indagare, da parte di un’estranea, diventa una pretesa indecente; d’altronde non intervenire mi ha sempre fatta sentire vigliacca. Scriverne è forse un modo per aggirare l’impasse, attenuare il sentimento d’impotenza.
Per dirla con le parole del famoso questionario proustiano, quali sono le qualità che preferisci in Silvana e Clara?
Credo d’aver rappresentato due donne senza qualità.
La bellezza di cui ho dotato Clara, dote invidiata, accessorio ritenuto (purtroppo!) indispensabile della femminilità, le si ritorce contro, e non solo perché lei la gestisce in modo sbagliato, come via di fuga da se stessa; il fatto è che diventa facilmente un ostacolo alla vera realizzazione del sé. Sarebbe una qualità se si riuscisse a capirne e svilupparne il senso profondo ma perfino in letteratura, perfino nella grande letteratura la bellezza femminile è quasi sempre sinonimo di apparenza.
Più produttiva potrebbe essere l’ambizione di Silvana. L’ambizione è però un sentimento ambiguo: può servire a stimolare parti trascurate o censurate della propria individualità, a raggiungere obiettivi importanti, ad acquistare coraggio, e allora è una qualità; ma se ha di mira obiettivi miserabili o diventa fine a se stessa… Silvana si dibatte in questa contraddizione e non mi pare che ne esca vittoriosa.
Pensi che se le protagoniste del romanzo fossero ventenni oggi, le loro vite sarebbero diverse?
Per quanto riguarda Silvana, che è lesbica e per rimontare il suo svantaggio sociale punta su un lavoro qualificato, credo che la risposta sia sì: rispetto a cinquant’anni fa, oggi l’omosessualità è più accettata anche in Italia, sebbene siano ancora numerose le sacche di resistenza, le condanne, gli ostracismi. Comunque le domande ingenue che si fa Silvana a proposito del suo orientamento sessuale, oggi non sarebbero drammatiche come sono per lei e soprattutto avrebbe a disposizione dei modelli visibili, a volte autorevoli, dai quali ricavare forza. Quanto al lavoro, gli spazi per mansioni altamente qualificate si sono estesi alle donne, anche se devono lottare di più per arrivare a certi traguardi e di rado conquistano i vertici.
Diverso è il caso di Clara: l’impossibilità delle donne di sottrarsi a destini domestici penalizzanti, spesso infelici, talvolta tragici, è ancora frequente, non solo in Italia. Mancano leggi di tutela efficienti, mancano luoghi di accoglienza, mancano supporti psicologici adeguati per le maltrattate, le minacciate, manca soprattutto la consapevolezza delle vittime. Ed è su questo punto, scivoloso ma essenziale, che mi sento d’insistere: devono essere le vittime medesime a rifiutare i comportamenti umilianti, violenti dei loro partners e/o dei familiari; per quanto sia difficile, devono essere loro a infrangere quel terribile silenzio di cui parlavo sopra, segno di vergogna (ma perché?) e, mi addolora dirlo, di complicità. Le leggi, le istituzioni difensive e protettive, sebbene necessarie, non bastano; sono le donne sfruttate, offese, picchiate a dover prendere la parola, a pretendere il rispetto di sé – e, prima ancora, a nutrirlo. Temo che su questo punto la vita di Clara sarebbe identica anche oggi. Purtroppo.
Qual è il messaggio che vuoi comunicare col tuo romanzo?
Quando ho scelto di rappresentare due donne che vivono in un periodo della storia d’Italia secondo me rimosso oppure giudicato grossolanamente, in modi superficiali e manichei, non sono stata guidata dall’intenzione di offrire un’interpretazione di quel periodo né un giudizio su quelle donne. Mi ha però sconvolta la grande quantità dei morti di morte violenta che allora si totalizzarono e ne ho fatto un elenco, alla fine del romanzo, una Cronologia che del libro fa parte integrante.
Forse l’unico messaggio viene proprio da lì: orrore per la violenza, per ogni violenza, pubblica e privata.
C’è qualcosa nel romanzo che avresti preferito non scrivere e invece si è imposto durante la stesura?
Quando scrivo non vorrei far morire nessuno, m’affeziono ai miei personaggi; invece di alcuni di loro finisco per raccontare la morte o lo spegnimento della vitalità. Credo che la contraddizione dipenda da due ragioni. Una è tecnica, ha a che fare coi meccanismi del racconto; succede che certi tipi non servano più e farli morire è la soluzione più sbrigativa. L’altra ragione ha a che fare con la mia psicologia: mi considero un’ottimista però ho una visione cupa e tragica dell’esistenza. Vivendo, me la racconto su, accentuo l’ottimismo, convinta che sia un modo per alleggerire la vita a me e agli altri; scrivendo, sono più sincera, non m’indoro la pillola e rappresento quello di cui sono consapevole: la tragedia umana.
Quali sono le tue letture preferite? Ti sei ispirata nello stile della tua scrittura a qualcuna di esse?
Gli scrittori che amo sono inimitabili, non sarei capace di riprodurne né la forza creativa né la grandezza stilistica. A guidarmi quando scrivo credo che ci sia un fatto molto più alla mia portata e, in fin dei conti, di natura sentimentale: io amo tantissimo la lingua italiana. Non quella deturpata sintatticamente, impoverita lessicalmente, deprivata della sua musicalità che sento parlare e spessissimo mi trovo a leggere, anche nelle pagine di autori stimati e celebri (e non riesco a perdonarli!), ma quella elegante, armoniosa, dolcissima, così ammirata nel passato. Forse oggi non è più al passo coi tempi, troppo strutturata, troppo letteraria, troppo complessa, eppure io ne resto innamorata e anche se, scrivendo, verifico che non è per niente facile maneggiarla, che spesso bisogna combatterci, credo che il mio stile non sia altro che il prodotto quasi automatico della lingua italiana classica.
Hai qualche considerazione da fare riguardo al pubblicare il tuo romanzo con una casa editrice neonata?
Mi piacciono i progetti creativi e le utopie e mi piace la vostra neonata casa editrice, che li propone entrambi.
Invece detesto le grosse concentrazioni editoriali, che purtroppo si vanno affermando, con una sequela di conseguenze negative. Siccome le grandi imprese devono obbedire alle leggi di mercato, si punta sulla quantità, si cede ai gusti più comuni e prevedibili del pubblico, si replica l’ovvio visto che vende bene, si azzera lo scouting, la ricerca della qualità e della novità, propulsive ma talvolta difficili da digerire e quindi poco commerciabili.
Il progetto della vostra casa editrice mette al primo posto la ricerca della qualità: perciò lo giudico utopistico – e questo è ovviamente un rischio – e controcorrente – e questa è invece ai miei occhi un grande pregio, dato che l’attuale corrente non mi piace neanche un po’. Ce la faremo? Mi auguro – e vi auguro – di sì.
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Notizie » L’editore intervista l’autrice: Concetta D’Angeli
Intervista [Autore] 24/06/2021 12:00:00